Intervista a Enrico Mascheroni
Testo e foto: Enrico Mascheroni
Il racconto di un fotoreporter che per anni si è occupato di documentare guerre e situazioni di disagio a livello internazionale, è sempre affascinante e fa riflettere su uno dei più delicati ruoli che un fotografo professionista possa assumere. Enrico Mascheroni, fotoreporter milanese di grande esperienza, ha iniziato la sua carriera con la pellicola e oggi fa il punto, insieme a noi, su come l’era digitale e di Internet abbia cambiato il modo di lavorare e soprattutto di avvicinarsi a questo mestiere, affascinante ma al tempo stesso rischioso.
Il suo bagaglio di esperienze è molto ampio: lavorando come professionista dal 1984, Enrico è stato testimone delle guerre civili che nei primi anni 90 hanno insanguinato la ex Jugoslavija, dell’esodo curdo, della fuga di migliaia di profughi dal Kosovo e di altre situazioni in territorio africano e sud americano. Si occupa inoltre di sviluppare personalmente temi di carattere sociale e di denuncia, come la “Tratta delle schiave del XXI secolo” del Benin, paese dell’Africa Occidentale.
Appassionato di chitarre elettriche e acustiche di marca Gibson – possiede una collezione di oltre dieci esemplari -, apprezza particolarmente la musica del cantautore britannico Cat Stevens. Ama leggere libri di viaggi e fare incetta di notizie che possano servire a organizzare al meglio i suoi, mentre della TV segue solo il lato documentaristico. Gli piace infine la cucina e condividere la cultura alimentare con i nativi dei luoghi che visita in missione.
Ciao Enrico, data la tua esperienza nel ruolo, non posso fare a meno di chiederti come, oggi, può descriversi la figura del fotoreporter. Nell’era di Internet e del digitale, il fotoreporter assume connotati ben diversi da quelli che aveva in passato. I giovani che iniziano devono dimenticare subito quel cliché cinematografico del fotoreporter un po’ avventuriero, dalla vita sregolata, diciamo… senza tempo.
Il reporter “factotum”, quello cioè che era a libro paga delle testate o delle agenzie, e che andava ovunque gli veniva chiesto di andare, non esiste più. Oggi il fotografo di reportage deve sapere cosa vuole e farlo nel migliore dei modi. Le agenzie e le testate non considerano più il fotografo come una fonte preziosa di immagini data la facilità con cui queste si reperiscono e la quantità di fotografi, veri o improvvisati, in giro per il mondo.
Le qualità che non devono mancare a un buon fotoreporter?
Serve efficienza, comunicazione, una capacità forte di raccontare per immagini e soprattutto sapersi dedicarsi al soggetto. A volte ho l’impressione che i giovani cerchino in tutti modi, attraverso i loro scatti, di far conoscere sé stessi. No, non è così che funziona! Il tema è e deve restare il soggetto che si sta documentando. Dunque, tu hai lavorato in molte occasioni come reporter di guerra e, in generale, hai raccontato situazioni di forte disagio e dolore. Quale errore si può commettere nell’affrontarle?
Vedi, torno ancora al presente e ti dico che il più delle volte manca la delicatezza, ossia quell’atteggiamento etico che ti spinge a non andare oltre il punto imposto dal buon costume e dal buon senso. Ciò che a volte i ragazzi fanno fatica a capire è che, quando si vestono i panni del fotoreporter, spesso si hanno dall’altra parte persone in difficoltà, intelligenti e che quindi comprendono i motivi per cui si è lì a fotografarle. Ciò può dare molto fastidio e creare situazioni non proprio piacevoli.
Quindi è venuta a mancare un po’ l’etica?
Sicuramente. Molto spesso, durante i miei corsi, cerco di comunicare ai ragazzi quel senso etico a cui sempre dovrebbero ispirarsi. Ovviamente non esiste una formula magica da applicare a un fotografo perché lo stesso smetta di essere “non etico” per diventare “etico”. Sta alla propria indole capire quando è il momento di fermarsi e di non andare oltre.
Poi c’è dell’altro: la sciatteria. Ti faccio un esempio pratico a tal riguardo. Sono stato ai funerali del Cardinal Carlo Maria Martini che si sono tenuti lo scorso 3 settembre nel Duomo di Milano.
Bene, c’erano fotografi in infradito, vestiti in modo impresentabile. Se si è invitati a far parte di un contesto così particolare, dove la forma ha la sua importanza – e bada bene che a non tutti era concesso di entrare -, come si può non capire che occorre presentarsi in maniera più sobria?
Ho sentito spesso di questo atteggiamento un po’ “super partes” di taluni fotografi. A cosa pensi sia dovuto? Forse a una convinzione sbagliata, e cioè che sia sufficiente fotografare l’indigenza e il dolore altrui per suscitare attenzione e assicurarsi il successo. Chi vuole fare successo invece, deve abbandonare quindi ogni forma di superficialità, anche perché rischia seriamente di investire dei soldi per acquistare l’attrezzatura, senza avere la possibilità di recuperarli lavorando.
Quale è allora il miglior modo di approcciare le situazioni “forti”?
È importantissimo corredarle con un racconto convincente e veritiero. Le immagini toccanti non sono più una novità e la gente ne ha sotto gli occhi ogni giorno. Basta aprire il web per capirlo.
Vedi, a me è capitato di fotografare in contesti di grande dolore producendo immagini davvero forti. Le ho sempre trattate però con molta cautela evitando che si diffondessero senza controllo. Potrei citarti le donne sfigurate dall’acido e tanto altro…
Hai mai avuto paura?
Certo, moltissime volte. Anche se devo dire che la paura, l’avverto soprattutto dopo, quando ripenso all’esperienze vissute e le confronto con quelle simili in cui, purtroppo, hanno perso la vita o si sono fatti seriamente male molti miei colleghi. Potrei citarti diversi esempi. Di solito, quando ci sono soldati e quando ci sono armi in giro, il rischio e la paura aumentano.
Altri luoghi comuni?
Quello di pensare che basta allontanarsi molto per portare a casa un buon risultato e che sia necessario scattare moltissime fotografie per selezionare, una volta terminata la sessione fotografica, quella o quelle migliori. Nulla di più sbagliato! È necessario saper raccontare con le immagini una storia che abbia un inizio e una fine, quindi raccoglierne in numero non esagerato – spesso ne bastano anche poche -, ma che descrivano bene una situazione. E quando parlo di storia, non necessariamente mi riferisco a disagi sociali.
È bello saper raccontare per immagini dei fenomeni di costume anche “leggeri”, come il significato, per farti un esempio, che si cela dietro la capigliatura di certe tribù africane. La gente vuole leggere e vedere anche questo. Entriamo un po’ più nel vivo della tua storia di fotografo. Cosa ricordi delle tensioni legate alla dissoluzione della ex-Jugoslavija?
Questa domanda mi riporta indietro nel tempo, in un momento sicuramente importante della mia attività. Un’esperienza che mi ha segnato. Forse perché le guerre civili sono le più dolorose. Sono stato a documentare le tensioni della ex Jugoslavija diverse volte, soprattutto durante il triste assedio di Sarajevo, durato quasi quattro anni. Ero ospite dei Gesuiti e quindi ho toccato con mano le situazioni che si sono susseguite nel tempo.
Avrei diversi aneddoti da raccontare, ma la situazione più particolare l’ho vissuta nella discarica in cui venivano smaltiti i rifiuti degli eserciti coinvolti nella guerra, compresso quello italiano.
Qui la gente del luogo si accalcava per fare incetta di tutto ciò che fosse buono da mangiare: pane, biscotti e tutto quanto fosse d’avanzo all’esercito.
Un giorno, a bordo di una Land Rover, percorrevo in compagnia del ragazzo che mi faceva da guida, il tristemente famoso “viale dei cecchini”, quello che taglia in due la città di Sarajevo. Abbiamo quindi seguito il camion dei rifiuti fino alla discarica dove ho fotografato i poveri disperati che provvedevano a raccogliere tutto ciò che potesse essere mangiato. Le mie fotografie hanno però urtato la suscettibilità di qualcuno che ha iniziato a inveire contro. Fortunatamente, il ragazzo che era con me, su mio suggerimento, si è scusato ed ha spiegato che ero lì non per delle foto ricordo, ma per documentare la guerra.
A quel punto l’atteggiamento nei miei confronti è cambiato. In segno di avvicinamento infatti, uno di loro mi ha invitato a stappare una birra. Ecco, non dimenticherò mai di aver vissuto momenti di apparente relax in un contesto così insolito e triste.
Poi ricordo il continuo accrescersi dei cimiteri, le enormi distese di croci bianche. Una donna un giorno, sui settant’anni, disperata, mi si è avvicinata mostrandomi la foto di suo figlio e di suo nipote morti entrambi a causa della guerra. Sono momenti difficili da raccontare, credimi. Oggi, al solo ricordo, ho la pelle d’oca.
Cosa deve sapere quindi un fotografo che intenda lavorare come reporter di guerra?
Guarda, di colleghi che tornano dai viaggi con le macchine completamente “azzerate”, perché magari hanno osato fotografare ciò che non invece non doveva essere fotografato, ne incontro e ne ho incontrati tanti. E spesso questo è il problema minore.
Quando si fa il reporter di guerra, il rischio che si corre è altissimo. Non si deve inoltre commettere l’errore di commisurarlo al compenso economico, primo perché la vita non ha prezzo, secondo perché i compensi di oggi, purtroppo, sono spesso scandalosi. Conviene sempre avere un accredito oppure impegnarsi per avere il tesserino da giornalista. In molte situazioni, il tesserino può aiutarti a non finire nei guai. Ricorda che ci sono troppi fotografi improvvisati che creano problemi ai professionisti. In Kosovo, a volte, avevo intorno a me più fotografi improvvisati che profughi.
Dal punto di vista tecnico invece consiglio di approfondire le conoscenze sul video, perché spesso i committenti, insieme alle fotografie, richiedono piccoli documentari filmati.
Da quanto tempo sei nikonista e perché?
Da sempre, da quando avevo diciott’anni. La mia prima fotocamera è stata una Ricoh, ma già a quei tempi la macchina leggendaria a cui tutti aspiravano era la mitica Nikon F2A. Parliamo degli anni ’70. Perché sono nikonista tuttora? Perché Nikon è l’unica casa fotografica che ti permette oggi di montare sulla nuova Nikon D800 le ottiche di quei tempi. Ed io ne ho un paio che mi hanno accompagnato in giro per il mondo e da cui non mi separerei mai. Merito dell’attacco a baionetta F-Mount.
A quali ottiche ti riferisci?
Sono il 28mm F/2.0 Ai manuale e l’AF 80-200mm f/2.8 ED che io definisco senza ombra di dubbio lo “Stradivari” di casa Nikon e di cui nel tempo sono state introdotte diverse versioni. Con queste due ottiche puoi girare il mondo e raccontare praticamente di tutto.
Una delle ottiche più attuali invece, che utilizzo soprattutto con la fotografia sportiva è l’AF-S Nikkor 70-200mm f/2.8G ED VR II, obiettivo velocissimo, che si presta a congelare scene ad alta velocità. Vorrei sottolineare a tal proposito la disponibilità della Nital a fornire a noi fotografi professionisti, quando occorre, ottiche di qualsiasi genere, quindi l’efficienza dell’NPS, il sistema Nikon Professional Services.
Per concludere, apro appunto una piccola parentesi sulla fotografia sportiva. Sembra che tu prediliga le discipline “fisiche”. Perché? Confermo, in particolare mi sto dedicando al taekwondo e al rugby. Nonostante siano sport fisici, oltre a essere molto affascinanti perché di squadra, hanno una componente umana molto forte. È questo che mi piace di entrambe le discipline.
Ho documentato per esempio, per quanto riguarda il taekwondo, le fasi di qualificazione ai Giochi Olimpici di Londra. È stato davvero entusiasmante fotografare le espressioni, le emozioni e gli stati d’animo degli atleti che in pochi secondi si giocavano una opportunità così grande.